Come ho scritto qualche tempo fa, spesso in passato ho avuto il desiderio di aprire un blog anonimo e di mettere nero su bianco tutto ciò che mi passava per la testa in assoluta libertà, senza il timore dovuto al fatto che lo potessero leggere amici, familiari, colleghi, conoscenti e via dicendo.
Un blog come questo su cui sto scrivendo, insomma, che non sponsorizzo e del quale non parlo con persone che mi conoscono, che pur potrebbero venirne a conoscenza per fatti indipendenti dalla mia volontà. Si tratta, però, di un rischio di cui devo essere consapevole: ché non tutto quello buttato in pasto all'Internet finisce nel dimenticatoio o, comunque, nelle mani di lettori che ci conoscono esclusivamente tramite la rete. Ciò che scrivo qui, ciò che ognuno di noi scrive sul web, è in fondo la proiezione di tutto ciò che gli accade nel mondo reale e che, anzi, sul mondo reale, in ultima analisi, potrebbe pur sempre avere degli effetti.
Detto ciò, mi sono reso conto che, per quanto io possa sentirmi più sicuro dietro lo schermo dell'anonimato, ci sono alcune cose che faccio comunque fatica a condividere. Che si tratti di eventi che mi sono accaduti nel corso della giornata o di riflessioni - spesso scaturite da questi - sui "massimi sistemi", mi sembra, nell'affrontarli qui, di mettermi magari eccessivamente a nudo e preferisco, allora, tenerli per me.
Da qui una prima considerazione (per molti forse scontata) per la quale l'anonimato, in realtà, è pur sempre relativo, perché dipende costantemente dalla nostra volontà di condividere le cose. In altre parole, se lo schermo dell'anonimato ci mette al riparo da certe conseguenze, siamo noi a decidere in ogni momento il confine tra cosa vogliamo mettere in comune e cosa no. Se non accettiamo questa premessa, per noi non basterebbero uno, dieci, cento blog anonimi, ciascuno chiuso dentro l'altro, come in una matrioska russa, nel quale decidiamo gradualmente, spazio dopo spazio, di scavare sempre più nelle profondità di noi stessi; ci sarà sempre qualcosa che avremmo qualche remora a condividere, per la quale l'ennesima barriera dell'anonimato non basterebbe.

Fatta questa premessa e acquisita consapevolezza del fatto che il limite tra ciò che - foss'anche nei confronti di sconosciuti - decidiamo di condividere e cosa no è sempre rimesso alla nostra sensibilità, ho deciso di scrivere, adesso, di qualche cosa di più, perché forse ne vale la pena.Nell'ultimo post ho scritto di aver iniziato un percorso di introspezione. Questo percorso si chiama psicoterapia. Ho capito che ne avevo bisogno dopo averne parlato con molte persone a me vicine, che mi vedevano star molto male per qualcosa che neanch'io sapevo ben spiegare.
Non è stata affatto una decisione facile. Confesso che avevo molte, davvero troppe incertezze, dettate in parte forse anche dallo stigma sociale che affligge questo tipo di pratica e che ci induce a considerare deboli (o "complessate", come anche si suole dire) le persone che decidono di rivolgersi a degli specialisti del campo. La decisione è maturata dentro di me nel corso di diversi mesi, al termine dei quali sono giunto alla considerazione che, perché no, visto che peggio di così non poteva andare, valeva la pena di fare un tentativo.
Ora sto molto meglio.
Lungi da me voler tentare qualsiasi tipo di spiegazione tecnica o scientifica, sia chiaro: l'Internet è un luogo sin troppo ricco di informazioni, scritte da professionisti con piena cognizione di causa e che sanno descrivere assai meglio di me i benefici cui questo percorso conduce (qui e qui un esempio). Tenevo solamente a dire a chi - come me in passato - si sente costantemente stanco, insoddisfatto del lavoro, delle proprie relazioni o della vita in generale che quello è il segnale che ci si sta avvicinando al burnout personale. E a chi è in dubbio se rivolgersi o meno a uno psicoterapeuta consiglio senz'altro di farlo subito.
Io sto ancora praticando questo percorso, ma ho imparato e continuo a imparare tante cose. Ne scrivo qui alcune, le prime che mi passano per la mente.
Che nessuno di noi è in qualche modo "condannato" a sentirsi per sempre così come vive un determinato momento della sua vita.
Che ogni piccolo cambiamento - anche solo il rendersi conto che in te e negli altri avvengono certi meccanismi e saperli "fotografare" - è un successo.
Che è vero che non si cambia dall'oggi al domani, ma è altrettanto vero che niente è dato per sempre e conta veramente ciò che facciamo qui e ora.
Che è giusto sentirsi responsabile non di tutto quello che succede, ma solo di ciò che è in nostro potere cambiare.
Che è giusto darci la possibilità di accettare
che certe cose, in un determinato momento, non sappiamo farle perfettamente o non sappiamo farle e basta. Che possiamo accontentarci
di come le sappiamo fare in quel momento. Che dobbiamo darmi il permesso di sbagliare e di non essere perfetti. È questa l'arma vincente in una società che ci vuole sempre più pronti, perfetti e perfezionisti, insieme alla spontaneità e la consapevolezza che, domani, andrà meglio.
Ecco, ho condiviso un po' più di me con chi - casualmente o periodicamente - si trova a passare da queste parti. Nel far questo, però - e nella speranza, magari, di riuscire ad aiutare qualcun altro - mi sento contento. E manco poco.
Spontaneamente
Er Matassa