mercoledì 25 marzo 2020

Molto working e poco smart. Del lavoro ai tempi del coronavirus

Son trascorse esattamente due settimane dal giorno in cui, a causa dell'emergenza sanitaria COVID-19 e prima ancora che il Governo lo imponesse per decreto, il Professore ha dato disposizioni a tutti i collaboratori affinché lavorassero, per quanto possibile, da remoto (o comunque non si recassero a Studio più di uno alla volta). Per la verità, a me sembra trascorso molto più tempo, ma penso che ciò sia da attribuire all'infinità di ore trascorse a lavorare o a studiare seduto alla scrivania davanti al computer più che alla quarantena in sé.

Che poi, a pensarci bene, a tutto quel tempo toccherebbe fare la tara tra videoconferenze, teleconferenze, attività collaterali e tutta una serie di problemi ai quali uno, quando si trova fisicamente al posto di lavoro, non deve pensare (o quantomeno non deve risolvere...). Ad esempio, chi aveva mai pensato al giorno in cui avrei dovuto confezionare artigianalmente una bozza di carta intestata dello Studio e stamparla con l'antidiluviana stampante di casa, cercando di fare in modo che il risultato fosse pur lontanamente decente? O più in generale alla necessità di dover evadere telematicamente delle pratiche che, con il vecchio cartaceo, avresti sbrigato in quattro e quattr'otto e che ora impieghi cent'anni per portare a termine, tra wifi guasto, password obsolete e indirizzi email non verificati?

Vi sono poi tutta una serie di seccature alle quali è normale andare incontro se si lavora, ma che sono inevitabilmente amplificate nel lavoro "agile" (che poi non ho mai capito che ci trovino gli altri di "agile" nel lavoro da casa - c.d. smartworking, appunto - dato che, per le ragioni esposte, paradossalmente uno si trova a dover lavorare molto di più!).

Occorre, però, una premessa.

Non so voi, ma io ho bisogno di un po' di tempo per riuscire a trovare la giusta concentrazione per lavorare seriamente. Nell'attuale stato di quarantena, questo lasso di lavoro preliminare - che sulla scia delle mie lacunose reminiscenze di fisica del liceo chiamerò "lavoro latente" - include: il caffè, portare fuori il cane, telefonare alla mia ragazza, fare il punto della giornata sulle cose da fare, la mattina far colazione e darmi una lavata e, in generale, liberarmi di tutte le distrazioni e/o tentazioni possibili (ahimè, alle volte anche un po' distraendomi o lasciandomi tentare...!).

Alla luce di ciò, tra l'intenzione di pensare o scrivere qualcosa e mettermici seriamente passano all'incirca un paio d'ore. Senonché, proprio nel momento in cui - per restare in metafora - inizia il "lavoro sensibile", ecco accadere le cose più svariate. Telefonano la segretaria di Studio per informazioni sugli estremi di quella fattura, il Professore per sapere chi deve scrivere quella bozza o, se la scrivi tu, quando pensi di mandargliela e il tuo Collega per problemi informatici o, comunque, di lavoro. I tuoi genitori ti chiedono di trovargli quella ricetta medica o di stampargli quel documento word o di convertirlo in pdf o di mandare quell'email a quella (ti)zia al posto loro. Telefona l'amica Cesira di tua madre, che ci tiene tanto a parlare anche con te perché è tanto che non ti vede. Telefona l'amico tuo, che non vedi da cent'anni e che probabilmente non rivedrai per altrettanti, ma con cui comunque ti senti spesso e ti dispiace dargli buca. Quando realizzi che, così facendo, hai impiegato (almeno!) altre due ore buone, inizi a realizzare che: la giornata ne ha ventiquattro; quelle lavorative sono molte di meno; la maggior parte di queste ultime è andata o andrà in fumo.

Insomma: indipendentemente da come lo si voglia chiamare, il lavoro da casa ("telelavoro", smartworking, lavoro in modalità "agile" o "da remoto") non è affatto una pacchia come immaginavo. Certo, alla fine si riesce più o meno a pranzare e a cenare a orari decenti, perché è escluso in radice il rischio di tirare per le lunghe le consegne della mattina o quello di rimanere a Studio sino alle dieci di sera per chiudere un atto. Certo, in teoria è possibile organizzare la giornata come meglio si crede, cercando di ritagliarsi del tempo da trascorrere con le persone care, per la cura del proprio corpo o per svagare la mente leggendo un buon libro o guardando un film. Il problema, però, è l'esser costretti a fare i conti con la percentuale di "lavoro latente" (nell'accezione che ne ho dato), percentuale che dalla quarantena esce inevitabilmente ingigantita.

Scherzi a parte. Il problema è che alla quarantena non ci siamo allenati, ma ci siamo finiti, e ciò senza un adeguato preavviso, come avviene per ogni pandemia che si rispetti. Le mie sono solo considerazioni personali, ma penso che sia necessario uno sforzo supplementare per riuscire, nel "letargo" della quarantena, a continuare a fare le cose che uno faceva prima e nella stessa maniera in cui le faceva (e forse, così ragionando, le farà anche meglio di prima). Senza trarne, dunque, pregiudizio per sé e per i propri cari, ma cercando di sfruttare al meglio tutti i momenti della giornata. Ogni secondo è prezioso per fare ciò che deve essere fatto: passare del tempo con le persone che amiamo, lavorare, dedicare qualche attimo a noi stessi; non da ultimo, anche per capire che un domani potremmo passare dalla quarantena a un altro letargo dal quale, però, non ci si risveglia. Pur a casa, dunque, ma sempre con le gambe in spalla; così facendo, ne usciremo tutti quanti.

Er Matassa

venerdì 20 marzo 2020

Il labor limae seguirà

È già la seconda o la terza volta (di quelle che io ricordi, s'intende) che il mio capo (d'ora innanzi: il Professore) dice che sono abbastanza "pletorico" nello scrivere.
Non sarebbe un gran danno, se non fosse che per scrivere quelle cose che lui definisce "pletoriche" ci impiego un sacco di tempo. E con quale esasperazione, poi...!
Il problema è che impiego trecento anni a partorire un pensiero o un'idea che abbia una qualche dignità per esser chiamata tale. Ok, devo ammettere, forse, di essere un po' perfezionista (o insicuro, il che è la stessa cosa), perché il mio approccio è questo: giammai metter qualcosa nero su bianco, finché ciò che ho in mente non è abbastanza definito e non sono consapevole di tutte le sue implicazioni.
La conseguenza è assai scontata. Scrivo un periodo, anzi mezzo periodo; lo trito, lo ritrito, lo capovolgo e lo stravolgo. Lentamente, poi, vado avanti, salvo tornare indietro subito dopo a vedere se quel che ho scritto è ancora lì; se qualche lettera è sfuggita o se ho dedicato troppo spazio a qualche parola;  se la consecutio temporum è corretta; se ha fatto capolino qualche idea più interessante; se quell'andare a capo ci stava o, piuttosto, spezza il discorso.
Insomma: la scrittura è per me una cosa importante, affascinante, ma anche - ahimè - incredibilmente dilaniante. Tanto, anche perché penso di essere un tipo abbastanza lento e riflessivo - e ciò sia nella vita, sia nella scrittura (che poi, come diceva qualcuno che ne sapeva abbastanza, anche la scrittura è vita, no?).
Mi son detto: chissà, uno degli scopi di questo blog potrebbe essere quello di aiutarmi a comprendere e superare i miei limiti da "scrittore". Uno dei quali, come detto, è l'esasperata lentezza, la costante indecisione e l'eccessiva riflessione. Come ti dicono a Roma: "pensace de meno!".
Serve infatti, alle volte, un po' di impulso, di iniziativa; serve saper pensare e scrivere di getto almeno le cose più importanti, perché, come diceva il noto Generale Orazio De Gaulle, il labor limae seguirà.
In conclusione: potrei provare, ogni tanto, a scrivere qualche articolo e metter nero su bianco qualcosa di me e delle mie giornate in poco, pochissimo tempo. Così, "a tasto libero", almeno come idea di partenza. E chissà che qualcuno - io stesso o chi mai leggerà questo minuscolo spazio nella rete - non inizi a prenderci gusto...

Er Matassa