mercoledì 19 ottobre 2022

Prima di andarmene


 È tutto pronto, adesso.

Sulla mia scrivania di Studio, fino a un paio di giorni fa, campeggiavano aspiranti grattacieli di carte e scartoffie relative a pratiche accumulate in questi due anni di lavoro qui.

Altrettanti grattacieli (ne ho contati almeno un paio) erano stipati nell'armadio nella mia stanza, nascosti dalle ante e al riparo da sguardi indiscreti, affinché non fosse ulteriormente aggravato il turbamento già causato dalle carte presenti sul tavolo.

Il desktop del computer era un coacervo di icone, programmi e documenti scaricati e automaticamente salvati, alcuni - azzarderei a dire - forse anche mai aperti. La cronologia dei download risaliva alla prima volta in cui ho messo piede nella stanza dove ora mi trovo, meno di un anno fa. Evento che, a sua volta, aveva luogo a più di un anno di distanza dall'ingresso, per la prima volta, in questo Studio: prima ero precariamente presente in sala riunioni, sino a quando non si è deciso di liberare una stanza di alcune futilità ivi presenti (sulle quali forse mi soffermerò un'altra volta).

In due giorni ho fatto del mio meglio per "fare pulizia": in disparte le operazioni di cleaning informatico, relativamente agevoli (almeno fisicamente parlando), posso affermare con una certa disillusione di aver trascorso l'ultima giornata e mezza a strappare e triturare fogli e appunti in vista della mia imminente dipartita. Il che mi ha spinto a riflettere anzitutto sul fatto che, d'ora in poi, prima di stampare qualcosa ci penserò due volte (foreste tutte del mondo, sono in debito con voi); in secondo luogo, che i tentativi di Eureka di civilizzarmi regalandomi libri di Marie Kondo sono stati in buona parte fallimentari.

Certo, alla fine ho scoperto che il mio successore, con ogni probabilità, sarà qui già da domattina. E dunque era a maggior ragione necessario provvedere a lasciar tutto in ordine per un passaggio di consegne decente. La risistemazione però era qualcosa che avevo già in mente a prescindere. Quasi a voler suggellare il fatto di aver finalmente deciso di imboccare un'altra strada.

Mentre strappavo appunti, sentenze e atti giudiziari (il cui pulviscolo mi accompagnerà finché non tornerò a casa a farmi una doccia) pensavo all'ultima volta che me ne sono andato: ossia a quando ho lasciato il primo Studio, nel quale ho iniziato la pratica e poi proseguito la professione. A differenza di adesso, quella volta la decisione di andarmene non l'avevo presa io, ma mi era stata imposta dal titolare dello Studio.

Certo, non mi era stata data una deadline precisa. Certo, la notizia mi era stata comunicata anche con una certa delicatezza. Tuttavia, l'approssimarsi di un'altra scadenza concomitante mi aveva costretto a fare i bagagli in fretta e furia. E a lasciare incomplete molte cose, vuoi gli affari correnti di cui mi ero occupato, vuoi gli "averi" (atti, documenti, strumenti di cancelleria) che sono riuscito a recuperare solo molto tempo dopo. Un'incompletezza tangibile, probabilmente anche specchio di quella interiore.

Stavolta volevo fare qualcosa di diametralmente opposto. Sì, reso anche più facile dal fatto di esser stato in quest'altro Studio per meno tempo rispetto al primo; ma non per questo scontato. Di lasciare tutto in ordine, proprio come in ordine - Marie Kondo permettendo - penso di star rimettendo la mia vita, dando priorità alle cose che per me contano davvero e a quelle che mi voglio impegnare a ottenere.

Sono pronto, adesso.

 

Prontamente

Er Matassa

mercoledì 12 ottobre 2022

Uscire dal nastro trasportatore

 

Sin dai tempi del liceo ho un carissimo amico: uno di quelli che ti dice le cose in faccia, senza troppi complimenti, soprattutto se gli stai a cuore. Dotato sia di guanti di velluto, sia di parole che sanno essere ben sferzanti e graffianti, riesce sempre ad arrivare dritto al punto.

"A volte mi sembra che tu stia come su un nastro trasportatore, di quelli che vedi negli aeroporti, per le valigie. Che ti portano dove vogliono loro e tu non fai che assecondarli".

Il mio amico, prima di me, era arrivato a capire e a comprendere ciò che cercavo. Anzi, meglio: ciò che in realtà non stavo affatto cercando.

In principio era l'Università, l'Erasmus, la laurea, lo stage post lauream. Fin lì tutto ok. Poi, per quelle coincidenze che nella vita accadono una volta su mille, il praticantato in uno studio prestigioso, conosciuto tramite una collega e amica universitaria. Di lì il dottorato e di nuovo l'Università. Inizialmente ero davvero entusiasta, del tutto proiettato in una vita che mi era capitata tra le mani e che forse nemmeno ero consapevole di aver scelto: mi smazzavo da una parte all'altra, sempre guardando al mio boss (anzi: ai miei due boss, ciascuno per il proprio ambito, professionale e accademico) come a esempi da cui trarre insegnamenti per prendere sia il meglio, sia il peggio. E questo ok, è un bene. Purtroppo, però - e soprattutto - non mi ero mai chiesto se davvero volessi tutto ciò.

Di lì la (perenne) insoddisfazione, il senso di noia e di incompletezza, la procrastinazione, la distrazione, il mio non darmi ascolto. "Faccio questo e quest'altro. Nella vita voglio, anzi devo, essere questo e quest'altro", ripetevo a me stesso quasi obbligandomi e senza fare i conti con le mie inclinazioni e predisposizioni.

C'è un detto spagnolo che capita a fagiolo (tiè, pure la rima): "El hombre propone y Dios dispone". In breve significa che tu puoi farti tutti i progetti di vita che vuoi, ma poi è la vita che sceglie per te. Dove la vita non sono gli altri, non è il caso e non è nemmeno il Padreterno. O meglio, non sono solo loro.

La vita sei anche e soprattutto tu, anche quando non ti sei mai fatto domande, quando continui a sentirti inadeguato e quando ti chiedi il perché di tale sensazione. Quando continui a forzarti e a obbligarti a percorrere certi cammini, ma senza ascoltarti, senza capirti. Senza vedere veramente quello che ti piace e - soprattutto - senza cercarlo.

Poi arriva il Covid, la quarantena, i litigi a casa tra i miei e con i miei, la perdita dell'animale domestico che era ormai quasi un fratello, il fatto di dover lasciare il posto di lavoro e il dover rispettare scadenze e portare a termine adempimenti che iniziavo a sentire sempre più pesanti. Su consiglio di amici e di Eureka - la mia ragazza - decido di iniziare psicoterapia.

La psicoterapia è stata una delle cose migliori che potessi fare in questi ultimi due anni. Mi ha portato a dubitare di tutto ciò che davo per scontato e a dare importanza a fatti, relazioni, sensazioni e pensieri che prima ritenevo futili o insignificanti. Mi ha aiutato a darmi fiducia e a sostenermi nei momenti più difficili, a capire cosa mi faceva star bene e cosa no. Ma soprattutto, mi ha fatto capire che la cosa più importante che uno possa fare è ascoltarsi. Dar retta a sensazioni. Decidere - certo - non solo di pancia, ma anche di pancia e non solo con la testa. 

Non saprei dire come sono arrivato a questo punto. Il fatto è che una volta che impari ad ascoltarti arrivi lontano, anche dove non avresti mai pensato di arrivare. Dicono che non sai dove ti porterà la psicoterapia. È vero. Magari riaffronti problemi e sollevi situazioni scomode, riporti alla luce cose che avevi lasciato sotto il tappeto. Dubiti di cose delle quali mai avresti voluto dubitare.

L'imparare a sostenerti, d'altra parte, ti dà il coraggio di prendere decisioni scomode, ma che senti che possano far veramente bene. Impari a fidarti delle tue emozioni e sensazioni. Impari l'autenticità di certi sentimenti e la finzione, o la sufficienza, di altri. Impari a non accontentarti di situazioni "di comodo", nelle quali sul momento stai bene, ma sai, senti che non è quello che vuoi per te nel lungo periodo.

E allora ti dici: "Non sono più tanto giovane, ma nemmeno tanto vecchio ancora". Inizi a pensare in grande come mai hai pensato sinora, costretto in quel nastro trasportatore che la vita ti ha costruito. Ora, però, capisci che su quel nastro non sei condannato a restare. Del resto, chi lo ha detto che bisogna restare dove la vita ci ha portato? Chi ti impedisce di prendere un'altra strada?

Un distinguo, forse, è opportuno. Non rimpiango e non rinnego tutto quello che ho fatto sinora. Il nastro trasportatore, per rimanere in metafora, è servito a farmi crescere e ad acquisire esperienze, a stringere amicizie, a maturare. Tutto quanto della mia vita, fino a questo momento, mi è servito. Ora, però, è il momento che prenda io il timone. È il momento che sia io a scegliere e non lo faccia qualcun altro per me.

Così ho fatto qualcosa che solo un paio di anni fa non avrei mai pensato di poter fare. Qualcosa di molto incerto e molto scomodo, rischioso e sconveniente.

Sono uscito dal nastro trasportatore.

La settimana scorsa ho detto a Studio che me ne sarei andato alla fine di questo mese. E così sarà, alla ricerca di qualcosa che mi piaccia di più e per/dalla quale io mi senta più portato, appagato, ristorato, intrigato.

Mi sto preparando a qualcosa di più grande, di più bello, che sento possa fare per me. E chissà: magari andrà male o magari, una volta visto l'andazzo, tornerò a fare quello che facevo prima. Ma potrò dire di averlo scelto, allora, e di essermi messo alla prova in qualcos'altro, senza vivere una vita di rimpianti.

E sono felice.

 

Er Matassa