domenica 28 febbraio 2021

La mia prima settimana di lavoro ai tempi del COVID-19


La settimana appena trascorsa ho iniziato a lavorare in un nuovo studio.

Dopo aver mandato il mio curriculum a un po' di studi e dopo essermi deciso, in particolare, a trasmetterlo a uno studio che da tempo mi ispirava simpatia, mi hanno risposto appena due giorni dopo l'invio, fissandomi un colloquio di lavoro telematico, al quale ne sono seguiti altri due.

Ebbene: mi hanno preso in prova e a lungo termine (retribuita: lo so, non era scontato...), affinché in studio abbiano modo di "conoscermi" e valutarmi.

Di questa assunzione "in prova" ho ...provato a ragionare con un po' di colleghi e amici. Meglio così, mi sono detto, rispetto a magari un periodo di prova molto breve - "one shot" - nel quale avrei avuto da subito la certezza di dovermi spremere come un limone in una materia che conosco assai poco (cioè il settore in cui lo studio, in realtà, è specializzato). Peraltro col rischio che non fosse presa in considerazione nemmeno l'idea di un mio progressivo adattamento e miglioramento durante il periodo di prova.

Lunedì scorso ho dunque iniziato la mia "prima settimana di lavoro ai tempi del COVID-19": già, ciò di cui voglio parlarvi non è solo la "prima settimana di lavoro", ma anche le restrizioni e i distanziamenti imposti dal contesto emergenziale, che rendono la prima settimana di lavoro un po' più... caratteristica - almeno quanto a "prima esperienza" - rispetto alle volte in cui in passato ho fatto qualcosa per la prima volta. 

Cominciamo dai "tempi del COVID-19". Lo studio è grande, ma non lo è abbastanza da garantire una stanza a persona. Mi è stato detto, dunque, che ci alterneremo tra noi, tra lavoro a distanza e in presenza, in modo tale da consentire a chi lavorerà in presenza di godere di una stanza tutta per sé e non dover necessariamente indossare la mascherina, salvo i casi in cui sia necessario recarsi in altre stanze.

Quanto alla "prima settimana di lavoro", invece, le prime impressioni sono contrastanti. Si tratta ovviamente di valutazioni necessariamente provvisorie, fatte all'esito di una sola settimana di lavoro e nella quale peraltro non sono stato coinvolto tantissimo nel disbrigo degli affari: la filosofia dello studio (che condivido, beninteso) è quella di un approccio graduale, nel corso del quale si andrà via via a farmi fare cose sempre più impegnative. Conseguentemente, sono costretto a giungere a conclusioni per loro natura temporanee e a riservarmi un aggiornamento in corso di causa.

Una prima conclusione cui sono giunto è che ogni realtà lavorativa è un mondo a sé, a prescindere da quanto i temi trattati e gli adempimenti da svolgere possano essere simili (se non identici) a quelli in un altro studio. Gli spazi e i tempi, infatti, funzionano "a fisarmonica": la stessa pratica (intellettuale, burocratica o meramente "materiale") che occupa più tempo in un altro contesto lavorativo è capace di essere sbrigata in molto meno tempo da un'altra parte. Ci sono un sacco di variabili: il pressing dei seniores più o meno stressante, la presenza del titolare nello studio, quanto l'apporto di quest'ultimo sia effettivamente decisivo per la buona riuscita di un atto o di una pratica, la maggiore o minore perizia della segreteria nell'uso della telematica e nel disbrigo degli adempimenti-rogna (credo che adempimento-rogna non esista, ma come parola composta mi ispirava molto).

In via generale, comunque, mi sembrano tutti molto più rilassati. Forse un motivo di tale "rilassatezza" (foss'anche l'unico motivo: ma non saprei dirlo con certezza) è la circostanza che gli orari sono molto più "umani" rispetto a dov'ero prima. Nella media, in serata ci si riesce a liberare da mezz'ora a un'ora prima rispetto a dove stavo (se si considerano gli orari "tabellari", ovviamente: altrimenti lo scarto è anche maggiore!) e ci sono un paio d'ore di pausa pranzo che - devo ammettere - fanno sì che uno possa in qualche modo rigenerarsi e riprendere a lavorare il pomeriggio con tutt'altro spirito. Sicuramente influisce anche il fatto che il titolare dello studio, a quanto ho avuto modo di vedere, ha meno impegni accademici e professionali rispetto a dove stavo prima o quantomeno tende, da quel che ho capito, a delegarne gran parte.

Nel corso della prossima settimana avrò modo di verificare la bontà delle sensazioni che ho descritto sin qui. Una seconda conclusione posso però dire di averla abbondantemente raggiunta.

L'idea che mi sono fatto è che in ogni contesto professionale basterebbe poco (davvero poco!) per migliorare tanto la qualità sia del lavoro, sia dell'umore delle persone con cui lavori. Quel poco, però, spesso e volentieri non viene fatto da chi solo è nella posizione di farlo.

Sapete, un po' mi ricorda i tempi in cui ero in Erasmus (oggi mi sento forse un po' malinconico?). Tempi nei quali, mettendo a paragone disfunzioni italiche e funzionalità teutoniche, mi rendevo conto che basterebbe molto poco, in Italia, per smuovere l'inamovibile e valicare l'insuperabile, se solo ciascuno di noi contribuisse al proprio dovere.

Spesso, invece, invece di valorizzare ciò che funziona, si finisce con l'eliminarlo.

A presto


Interlocutoriamente

Er Matassa

 

venerdì 19 febbraio 2021

C'era una volta

C'era una volta un sedicente blogger (con formula per me sgradevole, ma che di questi tempi si suole usare) che desiderava scrivere molto di molte cose successegli nel recente passato.

Glielo impedivano, però, oltre all'ansia dell'inizio di una nuova esperienza dietro l'angolo, anche e soprattutto la stanchezza accumulata dopo due giorni lavorativi molto intensi.

Quel giorno (anzi: quella sera), pertanto, anziché accedere al blog dal suo PC come di consueto, decise che sarebbe bastato verificare la possibilità, per lui, di scrivere post dal cellulare, spedendoli via email a un indirizzo che ne avrebbe garantito la pubblicazione pressoché immediata sul proprio spazio su internet.

Tanto bastò per farlo non dico vivere, ma quantomeno andare a dormire non dico felice e contento, ma quantomeno un po' più sollevato dalla consapevolezza dell'esistenza anche di questo mezzo per scrivere, in considerazione del fatto che, nel giro di pochi giorni, di tempo ne avrebbe avuto assai poco.

E non dico che visse, ma quantomeno andò a dormire non dico felice e contento, ma quantomeno un po' più sollevato dal resto del mondo e dai problemi a questo sottesi.


Sollevatamente

Er Matassa

martedì 9 febbraio 2021

Due contro uno

Confesso che non è da me ricorrere a metafore calcistiche.
Ma quando ci vuole...

"A colui che attende giunge ciò che attendeva, ma a chi spera capita ciò che non sperava".

Ci risiamo, a quanto pare, con la citazione di D'Avenia che tempo addietro menzionai in circostanze un po' particolari e al di fuori dall'ordinario: allora, infatti, avrei dovuto lasciare a breve il mio lavoro. Le stesse parole mi sono rivenute in mente oggi quando, specularmente rispetto a quanto allora accaduto, proprio per trovare lavoro avevo invece un colloquio. Momenti, dunque, di crisi, nel senso più profondo ed etimologico del termine.

La circostanza straordinaria non sta tanto nel fatto che il colloquio, a mio parere, sia andato bene (anche se ne dovranno seguire altri e con persone ben più esperte o, se così si può dire, "toste"), bensì in quello per cui su altri fronti, nella stessa giornata, è sembrata aprirsi anche la possibilità di una collaborazione universitaria. Ovviamente non v'è nulla di sicuro al cento per cento, ma mi sento di poter dire che se in passato ho avuto l'impressione di prendere delle porte in faccia, quella di oggi è di esser passato indenne attraverso più di un portone.

Certo, se tutto (proprio tutto) andasse bene, mi ritroverò a dovermi giostrare tra due diverse attività. In fondo, però, non è quello che ho sempre fatto sinora?

Tutto bene, dunque? No.

Eccolo, infatti, il "contro uno". La mia migliore amica , a mio parere, si sta mettendo in un bel pasticcio, ma per una serie di cose (incluso un mio interesse nella vicenda) è impossibile parlarle con quella franchezza che sempre ha contraddistinto il nostro rapporto. La cosa mi turba non poco e spero di riuscire presto a trovare una soluzione.

Nel frattempo, però, almeno per stanotte e domani cercherò di concentrarmi su quanto di positivo mi ha regalato questa bella giornata. E di smarcarmi da quell'"uno" che mi dà il tormento.


Speranzosamente, alla prossima

Er Matassa



lunedì 8 febbraio 2021

Cinque anni fa

Sono trascorsi cinque anni.

E dire che, nel frattempo, ne ho fatte di esperienze: simili, sì, ma mai identiche. Si è trattato per lo più di prove di verifica della conoscenza, che constavano, spesso e volentieri, di una fase scritta e di una orale.

Così è stato, per esempio, nel caso dei tentativi per essere ammesso ai corsi di dottorato. O di quelli per l'abilitazione all'esercizio della professione. Lì, però, è un tipo di sapienza affatto particolare a esser saggiato: esso, certo, non può prescindere dalle conoscenze scientifiche della persona, ma in qualche modo le prime trascendono la seconda, non foss'altro, ad esempio, per la simultaneità e contestualità dei momenti di esperimento delle prove (rispetto agli altri candidati) o per i luoghi in cui essi si svolgono... Giusto per elencare alcuni elementi secondo me determinanti, anche se pur sempre secondari.

Ma soprattutto, in quei momenti non ci si trova mai faccia a faccia con qualcuno che, invece di leggere o ascoltare quanto hai da dire, ti sta scrutando dentro per capire cosa tu stia pensando veramente

Ricordo bene, invece, quegli altri momenti: i colloqui di lavoro.

A monte di tante email inviate v'era il tempo speso per scrivere lettere di presentazione, per compilare curricula scegliendo tra conoscenze ("secondo te posso omettere il voto di maturità?" o "non devo scriverci che ho fatto quest'esame tre volte, vero?") ed esperienze ("questo stage all'impresa di unicorni rosa che dici, lo tolgo o lo lascio?" o "secondo te gli interessa se ho vissuto sei mesi all'estero a Nonmiricordocomesiscrivelandia?"), più o meno pertinenti, da valorizzare, cercando di mediare tra descrizione esaustiva e sintesi efficace delle medesime.

A valle di tante email inviate c'era l'incontro, deputato a una prima scrematura, con un professionista - spesso un membro junior della squadra - dal cui parere dipendeva la tua scalata verso il match con il capo/campione del ring di turno. Se uno riusciva a rimanere abbastanza lucido, capiva che i discorsi che si era preparato -  le risposte alle domande più temute, gli approfondimenti su quel particolare quesito che avrebbe potuto essere oggetto della discussione, i confronti con le opportunità di altri potenziali datori di lavoro per fare la tara a quel che effettivamente vi era sul piatto della bilancia - sarebbero stati tutti inutili. Ché quel che conta, ora come allora, è che uno faccia una buona impressione in quel momento, davanti a quella persona. Punto. E sapere che, a tal fine, si userà qualsiasi cosa baleni per la testa nel preciso frangente in cui può sembrarci utile.

Sono trascorsi cinque anni dall'ultimo colloquio di lavoro e domani toccherà rispolverarsi le maniche e far sfoggia del sorriso migliore e della faccia tosta più convincente che ci sia.

Scaramanticamente

Er Matassa

Dipendesse da me, cercherei lavoro così